Analitici e continentali
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Secondo un vecchio ammonimento di un saggio che ho avuto la fortuna di conoscere, il primo passo per dare una valutazione onesta di uno scritto è, prima di tutto, quello di leggerlo. Pare un’ovvietà, ma oggi si cerca in tutti i modi di evitare proprio questo.
Pur nella estrema diversificazione dei mille rivoli lungo i quali la cultura occidentale si è sviluppata nei secoli si possono intravedere chiaramente due orientamenti generali, vorremmo dire due stili; l’uno è quello che potremmo definire mitteleuropeo, l’altro quello anglosassone. Tale distinzione non discende esclusivamente dal medium linguistico utilizzato, ma si fonda, in modo più radicale, su quelli che Aristotele chiamerebbe i “pathémata tés psichés”, le strutture concettuali, o, se si vuole dirla modernamente, i paradigmi cognitivi. Per quanto vaga possa sembrare questa affermazione, essa è tanto evidente che trova risconti incontrovertibili. Ne citerò uno solo, facendo perno, ovviamente, sulla mia materia, la filosofia. Negli Stati Uniti, e in generale in tutto il mondo anglosassone, si distinguono ormai due “filosofie”: la “continental philosophy” e l’“analytic philosophy”; brutalmente, la nostra e la loro. La cosa crea una bipartizione precisa, e con una linea di demarcazione nitida.
Risulta ovvio che da queste due diverse modalità di “fare cultura” discendono strutture organizzative, parametri e metodi spesso sensibilmente diversi. Per fortuna, o meglio, per conseguenza della probabile unicità del reale, questo non impedisce una consolante reductio ad unum quanto agli esiti finali, vale a dire alle conclusioni cui le scienze, iuxta propria principia, pervengono. E così, certamente nell’ambito delle così dette “scienze dure”, come va di moda chiamarle oggi, ma in larga misura anche entro le “humanities”, due studiosi provenienti dai due ambiti diversi si capiscono benissimo, e concordano sull’accettazione degli esiti delle ricerche. Così un chimico di Austin e uno di Lipsia concorderanno ampiamente sulle “verità” della chimica, e prevalentemente anche sul valore intrinseco, sul grado di importanza, di novità e di originalità di una certa ricerca. E tuttavia, a ben vedere, il processo di validazione, le modalità di controllo, di quelle convergenti ricerche, possono avere seguito, anzi, hanno certamente in modo prevalente seguito, passaggi del tutto diversi. Qui è bene porre mente a una ovvietà, che spesso non si tiene presente, e che l’Intelligenza Artificiale altrettanto spesso si assume il compito di richiamare: processi diversi in ogni passaggio possono benissimo partire da uno stesso punto iniziale, e pervenire a una stessa situazione finale. Se io devo collocare dei libri su uno scaffale in ordine di data di pubblicazione, i due processi “prendi il più vecchio e mettilo a destra” e “prendi il più recente e mettilo a sinistra”, pur non avendo alcuna azione in comune, pervengono esattamente allo stesso ordinamento voluto. Essi hanno una coerenza intrinseca, la quale è garanzia del successo finale.
Nella maggior parte dello sviluppo scientifico viviamo oggi una egemonia culturale del mondo anglosassone, degli Stati Uniti in particolare. Per la maggior parte delle discipline le pubblicazioni di riferimento nascono dall’altra parte dell’Atlantico, e sono ovviamente scritte in inglese. Questa evidenza ha portato chi legifera in materia di valutazione a guardare con grande interesse alle soluzioni adottate oltreoceano, e questo è in certa misura ben comprensibile. Ma, come sempre, solum dosis facit venenum. Importare tout court metodi e ordinamenti pensati entro altri paradigmi culturali, nell’ambito dei quali si desse pure il caso che presentassero grande efficacia, è operazione ad altissimo rischio di incoerenza. Non solo essi possono rivelarsi inadatti, fuor di luogo o superflui, ma possono addirittura risultare contraggeni e incoerenti con la struttura complessiva del sistema.
Un metodo ampiamente utilizzato nel mondo anglosassone è la valutazione della ricerca basata su parametri numerici misurabili, e scandita da una tempistica molto rigida. Se questa via sia del tutto adeguata è al giorno d’oggi messo in discussione ampiamente anche all’interno del corpo accademico inglese e americano. Si veda, tanto per fare un esempio autorevole “The Follies of Citation Indices and Academic Ranking Lists”, di Richard Ernst, premio Nobel per la chimica. Ma anche a volere assumere la metodologia come buona in sé, che essa sia esportabile entro il nostro ordinamento resta del tutto opinabile, e in specie al di fuori delle aree in cui tali metodologie sono abbastanza consolidate. Criteri come il numero di citazioni, che dovrebbe misurare il così detto “impact factor”, e in generale il delegare la valutazione degli studiosi a parametri esclusivamente bibliometrici, comportano evidenti approssimazioni, e spesso vere e proprie distorsioni della realtà.
Secondo un vecchio ammonimento di un saggio che ho avuto la fortuna di conoscere, il primo passo per dare una valutazione onesta di uno scritto è, prima di tutto, quello di leggerlo. Pare un’ovvietà, ma oggi si cerca in tutti i modi di evitare proprio questo. Il citato Ernst conclude conformemente il suo saggio con queste parole: “And there is indeed an alternative: Very simply, start reading papers instead of merely rating them by counting citations!”.
La quantificazione forzosa e la conseguente numerologia pitagorica che derivano dal fenomeno qui evocato, se godono di qualche affidabilità nelle “scienze dure”, portano a conseguenze addirittura ridicole nelle materie umanistiche. Su questo si veda quanto scrivono Antoinette Molinié e Geoffrey Bodenhausen in “Bibliometrics as Weapons of Mass Citation”. Per prendere in considerazione qualche metrica proposta dalle nostre parti, la pubblicazione di una monografia vale 3 punti, e di un saggio 1; sembra giusto. Ma supponiamo che io abbia scritto un libro. Se lo pubblico come monografia, allora ottengo 3 punti. Ma se invece pubblico ciascuno dei 10 capitoli separatamente, ottengo 10 punti con lo stesso scritto, solo un po’ più difficile da ricostruire. Che poi nella monografia ci sia l’invenzione dell’acqua calda, o, peggio, del moto perpetuo, pazienza. Quanto poi al famoso impact factor, esso dipende da quanti mi citano. Ma se in molti mi citano per dirmi del cretino, divento un genio. Dunque il trucco sta nel dirla talmente grossa che in molti reagiscano. Quante monografie deve avere scritto un umanista in cinque anni? Oggettivamente, viene un po’ da ridere, se non fosse che, con un legislatore che ragiona così, il passaggio dal riso al pianto è più veloce di un neutrino nel tunnel.
Per approfondire:
• Scarica la memoria che esprime il punto di vista del CoNPAss sulla valutazione, depositata in audizione alla camera dall’autore professor Maurizio Matteuzzi, membro del direttivo nazionale
• Il sito del CoNPAss: www.professoriassociati.it
English abstract: In this paper we discuss some questionable attitudes to acritically import from abroad evaluation methods based only on numerical data.
Maurizio Matteuzzi